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AMATRICE: DALLA TERRA VITA E MORTE

Il disastro sismico e la sfida culturale delle comunità colpite.

di Pino Gala

Alcune decine di secondi di tremore della terra bastano a trasformare la vita di umani, animali e cose in un paesaggio di morte e distruzione. Nell’Italia perennemente sismica, che da sempre ricuce le ferite delle proprie aree colpite e che ancora, reticente, non ha appreso la lezione della prevenzione che le moderne tecniche architettoniche permettono, ogni terremoto è un disastro apocalittico. Ogni volta si spera che non tocchi a noi, ma proviamo immenso dolore e attestata sincera solidarietà verso i disgraziati che la sorte cieca sceglie di volta in volta. Restano nel profondo della cultura italiana tracce di magia, fatalismo, rassegnazione e sfida con la natura che poco ci distinguono dai nostri antenati del Medioevo. E sempre scatta la validità del feroce proverbio latino “Mors tua, vita mea”: dalla distruzione e dalla prostrazione nascono per i sopravvissuti occasioni di lavoro e andamento positivo delle economie disastrate. La logica del “meglio l’uovo oggi” è dura da morire soprattutto nella politica di casa nostra, così ogni volta vanno in fumo miliardi, vite umane e persino culture locali. Ancora un profondo cambio di mentalità “preventrice” non genera un piano nazionale di messa in sicurezza del patrimonio artistico e edilizio in genere, che pur prevedendo ingenti costi oggi, fa risparmiare nel tempo e soprattutto limiterebbe la fragilità del sistema architettonico prevalentemente antico.

Ogni volta che accade si spendono fiumi d’inchiostro a leggere e commentare da innumerevoli angolazioni di veduta il fenomeno devastante, molte dichiarazioni e molte analisi diventano quasi rituali e si possono adattare ad ogni distruzione sismica, quasi come se fosse un previsto cerimoniale di un rito nefasto, eppure, a seconda dei territori e delle comunità colpite, mutano le condizioni geo-antropologiche delle aree colpite.

Amatrice è per tutti gli studiosi del settore demo-etno-antropologico e per gli storici di cultura popolare una terra-simbolo di ricchezza patrimoniale. Il disastro sismico rischia di trasformarsi, se mal gestito su vari piani, anche in una grave débacle culturale conseguenziale.

Terra del regno di Napoli e abruzzese dal 1265 al 1927, la bella Amatrice (da “la Matrice”, chiesa Matrice) è, era, una perla architettonica nel mezzo dell’Appennino, lungo l’importantissima e antica via del sale (Salaria) che metteva in contatto Roma con il Piceno e il mare Adriatico. Nell’economia montanara era un terra di pastorizia e attività boschiva: dai monti della Laga partivano in autunno le greggi verso la campagna romana e verso la valle del Tronto: lane, latte, legname, cave d’estrazione di pietra avevano garantito un certo benessere per molti secoli: il suo assetto urbanistico attuale confermatosi nel XIII sec. riproduceva il classico castrum romano e si fregiava di torri, belle chiese e bei palazzi signorili. Una nobiltà terriera, ordini religiosi e una pregiata classe artigiana avevano abbellito queste terre costruendo chiese fittamente affrescate, con l’apporto di numerosi artisti toscani, settentrionali e locali, tra cui spiccava Cola della Matrice (Nicola Filotesio, nato ad Amatrice nel 1480). Dall’ultimo dopoguerra gran parte della popolazione si è trasferita a Roma per trovare lavoro prevalentemente nel terziario, molti come ristoratori o cuochi, grazie alla fama dei suoi bucatini o spaghetti al guanciale, in bianco o al pomodoro (l’amatriciana, appunto). Al dialetto abruzzese dei vecchi si era sostituito il romanesco ibrido delle ultime generazioni, ma la città ha trovato negli ultimi decenni nel turismo la sua principale fonte economica. Un turismo di ritorno delle famiglie amatriciane trasferite nella capitale e dintorni, ma anche un turismo climatico estivo, poiché la cittadina è contornata da bei paesaggi montani del Parco Nazionale del Gran Sasso e si distingue per opere artistiche di riguardo, per una buona cucina e per attività amene offerte ai numerosi ospiti estivi.

Amatrice ha oggi ben 68 frazioni (1) in un territorio molto vasto a incastro fra quattro regioni (Lazio, Abruzzo, Marche e Umbria), dove sopravvive un’economia zootecnica, casearia, agricola e artigianale spesso a conduzione familiare.
Ad Ascoli e ad Amatrice si venera come patrono Sant’Emidio, santo che protegge dal terremoto, ma nella notte infame del 24 agosto forse il santo si era un po’ distratto.

Amatrice sul piano culturale è (uso ancora il presente perché ho fiducia nella caparbietà montanara degli amatriciani) un vero, interessante e sorprendente laboratorio antropologico. Nonostante sia stata contrassegnata da secoli e di recente da 3 fattori che normalmente fungono da roditori delle tradizioni locali come la transumanza, l’emigrazione e il turismo, il territorio amatriciano ha saputo conservare oltre alla cucina montanara, anche pregevoli usanze espressive come il canto a braccio (per terzine od ottave improvvisate di endecasillabi in rime strutturate), le “ciaramelle” (la zampogna “zoppa” con due sole canne funzionanti senza bordone), l’uso magistrale di organetto e “tamburrella”, e soprattutto una vivacissima forma di “saltarella” (detta ancora oggi dagli anziani al femminile come era tipico dell’uso abruzzese). Inoltre molti generi canori sono rimasti, come la serenata, il canto di accompagnamento della sposa, gli stornelli, i canti narrativi, ecc. Nello specifico amatriciano la partenza di molte famiglie verso la vicina capitale ha permesso di non rompere del tutto i legami con la terra madre poiché il fine settimana spesso gli amatriciani tornano nei luoghi di origine, ma addirittura ha spinto ad enfatizzare le espressioni del territorio come tratti distintivi dell’identità collettiva di origine.

Nella sua pagina Facebook l’antropologo e amico Eugenio Imbriani così ci ricorda:

«Uno dei testi più noti della letteratura popolare italiana è stato appunto raccolto proprio ad Amatrice oltre un secolo e mezzo fa da un suo illustre cittadino, Pier Silvestro Leopardi, patriota e senatore, che vi era nato nel 1797, il quale ne informò Alessandro Manzoni. Il grande scrittore lombardo trascrisse la cosiddetta nenia di Amatrice, che trovava bellissima, in una lettera inviata alla moglie, nel 1855; all’epoca si parlava di poesia popolare, non di canti, per cui la musica non veniva presa in considerazione:


Se t’arrecorda, drent’allu vallone,


quando ce comenzammo a ben volere,


tu me dicisti: dimmi sci o none,


i’ te vordai le spalle e me ne iene:


or sacci, mio durcissimo patrone,


che inzin d’allora i’ te voleo bene:


vience domane, viemme a conzolare,


che la risposta te la voglio dare.


Ne esistono delle varianti, la più accessibile è presente nei Canti delle provincie meridionali di Casetti e Imbriani (1871-1872). Nel 1953 Alberto Mario Cirese dedicò a questo tema il suo primo articolo apparso sul primo numero della rivista «La lapa» che dirigeva insieme con il padre Eugenio: Manzoni, Croce e una nenia di Amatrice (pp. 25-28), mettendo in discussione la linea interpretativa di quella strofa fino ad allora avanzata. Per Manzoni, infatti, si trattava del lamento di una donna che rivelava troppo tardi il suo amore a un giovane morto, mentre, quand’era in vita, lo aveva respinto: un pianto funebre, quindi. Una opinione simile avrebbero in seguito dichiarato anche Silvio Spaventa e Benedetto Croce. Cirese notava opportunamente che l’ottava non aveva nulla e che vedere con la struttura e i contenuti dei lamenti funebri rilevati nell’area, ma giungeva a una conclusione interlocutoria e quasi sorprendente: perché negarne senz’altro il carattere funerario? Perché rinunciare alla possibilità che qualcuno avesse trovato una forma più complessa ed originale, rispetto alle formule locali condivise, per esprimere i sentimenti della perdita e del rimpianto?
Qualunque sia stata la loro funzione, quei versi tornano adesso alla mente come un messaggio denso di significati che viene da Amatrice e dagli altri borghi abbattuti. [e. i.]».

Molti folkloristi e ricercatori hanno studiato tratti del suo patrimonio culturale, finendo poi con l’affezionarsi a quella terra, che, pur se da mezzo secolo ibridatasi con il mondo socio-culturale della capitale (e la provenienza dei morti sotto le macerie è in questo tragicamente eloquente), è ancora una produttrice di espressioni proprie, che rischiano ora, a seconda delle scelte di gestione del territorio e delle soluzioni antropiche che verranno adottate nei prossimi anni, di essere distrutte o erose profondamente, oppure rivalorizzate e trasformate in mordente tonico per i residenti. Penso in questo momento al lavoro dell’etnomusicologo amatriciano Giancarlo Palombini, che ha lavorato tanto sulla cultura della zampogna e sul canto a braccio locali, contribuendo ad una presa di consapevolezza da parte degli abitanti del valore culturale del proprie pratiche poetiche e musicali. Sul piano etnocoreutico Amatrice e il territorio circostante sono una riserva culturale da preservare. La sua saltarella è unica nel suo genere per intensità e virtuosismo esecutivo, che già negli ultimi decenni ha subito l’invadenza talvolta condizionante di esibizionismi esterni alla comunità.

La bella Amatrice la frequento dal 1981, perché era diventata per uno studioso della danza etnica italiana una meta obbligata grazie alla sua capacità di conservazione e rifunzionalizzazione della complessa ed effervescente “saltarella”. Il ballo è stato da me studiato in molte varianti osservate in vari anni di indagine sul campo e di documentazione audiovisiva. Annotando e schedando visivamente differenze e stili territoriali, parentelari e persino personali, abbiamo un quadro complesso di un genere coreutico di coppia che, per l’estrema vitalità esecutiva e per il conseguente dispendio di energie, riduce ogni esecuzione a circa 35-45 secondi di protagonismo coreutico dei ballerini. La musica del ballo lega indissolubilmente questo esempio di danza alla più ampia famiglia della saltarella abruzzese dell’area aquilana-teramana.

Nella mia duplice veste di etnomusicologo e antropologo della danza, Amatrice rappresenta, dunque, una pietra miliare insostituibile. Nel 1989 presi contatto con l’appena costituitosi gruppo di arti e tradizioni popolari “Ma-tru”, e per caso mi son trovato a filmare il suo primo spettacolo a Posta. Da allora la collaborazione e l’amicizia fra l’Ass. Taranta di Firenze e l’Ass. “Matru” e le tante ballerine e i tanti ballerini di Amatrice si sono consolidate. Qui si trasferì dal 1990 al 1997 la nostra manifestazione estiva residenziale di “Estadanza”, rassegna didattica sulla “saltarella” locale, ospitata con calore e partecipazione presso l’Istituto Alberghiero Regionale. Ben sette edizioni si sono svolte qui, con il contorno di convegni, conferenze e spettacoli, con tanti contenuti didattici e teorici, di cui i materiali dei convegni qui svoltisi custodiamo gelosamente in archivio.

Qui è nata nel 1990 la rivista “Choreola” grazie all’interessamento del dott. Massimo Fraioli e della Cassa di Risparmio di Amatrice che finanziò la stampa delle 500 copie del primo numero della rivista, distribuito gratuitamente a studiosi e appassionati. Nel 1993 è stato pubblicato il cd sulla “saltarella”, su canti e musiche tradizionali della zona, poiché il territorio di Amatrice, Cittareale, Accumoli, Posta e Antrodoco è diventata privilegiata area di ricerca sul campo. L’attività di coreografo al gruppo “Matru”, mi ha permesso di conoscere la prima formazione del gruppo, ballerine e ballerini ancora ruspanti e legati a stili rurali di grande spessore energetico. Polluce, Simonetta, Oriana, Pietro, Santino, la coppia Fascianelli, ecc., ci hanno fatto sentire come a casa, con calore e umanità, ma soprattutto abbiamo conosciuto ballerini eccezionali e irripetibili come Domenico Compagnucci, il cosiddetto “Garibaldi”, Polluce ed altri. Il ricercatore finisce per eleggere a patria simbolica la terra di adozione culturale, così in fondo è avvenuto per l’ambiente amatriciano, ed ora insieme piangiamo i morti e la distruzione di un habitat architettonico che non sarà più lo stesso.
La ricerca e l’organizzazione di eventi rafforzano anche le relazioni sociali, creano rapporti di amicizia, vicinanza che non si offusca col passare del tempo. Anche noi abbiamo pianto i morti, abbiamo trepidamente cercato notizie dei tanti conoscenti, abbiamo cercato nelle foto dei media i luoghi e le case che abbiamo frequentato e dove abbiamo vissuto densi momenti di vita comune.

Io spero che tutte le micro-comunità martoriate dal lungo sisma a sciame restino sul territorio dei loro padri, per non perdere quella relazione importante consolidatasi da secoli fra la vita quotidiana e il suo spazio fisico. Già lo smantellamento degli ospedali e delle infrastrutture burocratiche (municipi, poste, uffici di servizi, ecc.) nelle aree a bassa densità abitativa intrapreso dagli ultimi governi per ragioni di risparmio della spesa pubblica da tempo sta inducendo molti anziani e giovani ad abbandonare le aree montane, privando così quei presidi antropici necessari per la salvaguardia ecologica dei territori in questione, ma noi mettiamo in guardia anche dalla perdita del patrimonio culturale indissolubilmente legato alla vita sociale delle comunità di montagna.

Restare per sancire un’appartenenza e un’identità, poiché certi saperi sono essenzialmente legati al fatto che i creatori-fruitori degli stessi restino comunità e mantengano le radici spaziali in un microsistema ambientale che ha indotto a produrre esperienze e conoscenze ad esso collegate. Invito gli amatriciani ad amare ancor di più la propria terra, anche se oggi si assume le colpe di inaspettati disastri.
Ora è il momento dell’elaborazione del lutto, poi ci vorrà molto coraggio per ripartire guardandosi dentro, trovando nella memoria il conforto della consolazione interiore.

Dopo il terremoto che colpì nel novembre del 1980 l’Irpinia e la Basilicata, venne in veste di antropologa Anna Lomax, figlia del famoso etnomusicologo Alan, a studiare le trasformazioni sul piano antropologico vissute da alcune comunità dell’area, in relazione al mantenimento delle proprie espressioni culturali locali e alle mutazioni in parte inevitabili che un disastro sismico provoca. Finanziata da una università americana, vi restò circa tre anni e studiò il prima, il durante e il dopo sisma delle dinamiche sociali ed espressive di alcune comunità specifiche.

Spero anche che alcuni docenti universitari mandino giovani antropologi a monitorare la situazione socio-culturale dei prossimi anni, così da studiare il patrimonio esistente (documentabile dagli archivi e dall’indagine sul terreno) e le trasformazioni che la nuova situazione produrrà.

Dovremo attivarci affinché un’immane tragedia diventi anche occasione di conoscenza del patrimonio locale, che non è solo artistico, ma anche linguistico, poetico, narrativo, musicale, coreutico, gastronomico, artigianale, zootecnico, religioso, naturalistico ed ergonomico in genere.

Finita l’emergenza umanitaria, attivata la raccolta di fondi e la ricostruzione, gli operatori culturali dovranno collaborare con la popolazione locale a far conoscere il loro patrimonio mediante attività divulgative e scientifiche (mostre, incontri di studio, produzioni editoriali, rassegne didattiche e spettacolari, ecc.), per non rischiare il dimenticatoio dopo l’esasperata visibilità della cronaca.

L’Associazione Taranta, come primo passo, sta organizzando a Firenze per sabato 15 e domenica 26 ottobre 2016 un seminario didattico sulla saltarella di Amatrice con ballerini e suonatori del gruppo folk “Matru” venuti per l’occasione dalle zone del terremoto, essi condurranno i corsi di ballo e di tamburello, per raccogliere fondi per la propria comunità. Tutti gli incassi saranno consegnati direttamente dagli operatori del seminario al Comune di Amatrice. Un piccolo gesto di solidarietà e di valorizzazione del suo patrimonio culturale.

Voglio terminare queste riflessioni con un parallelismo simbolico, che diventa un reale, se pur tragico, ossimoro: la terra ha ballato poche decine di secondi producendo morti, sofferenze e danni; la gente dell’Alta Sabina esegue ancora la sua saltarella in pochi secondi di scatenata energia vitale, emblematico segno di voglia di vivere e di trarre dalla stessa terra forza positiva. Nei prossimi tempi la saltarella assumerà ad un tempo ancor di più funzioni liberatorie, scaramantiche, propiziatrici e terapeutiche.

Dall’uomo la vita per vincere la morte.

[g.m.g.]

 NOTE

(1) Ecco i nomi delle frazioni di un territorio molto vasto: Aleggia, Bagnolo, Capricchia, Casale, Casale Bucci, Casale Nadalucci, Casalene, Casale Nibbi, Casali della Meta, Cascello, Castel Trione, Collalto, Collecreta, Collegentilesco, Collemagrone, Collemoresco, Collepagliuca, Colletroio, Colli, Conche, Configno, Cornelle di Sopra, Cornelle di Sotto, Cornillo Nuovo, Cornillo Vecchio, Cossara, Cossito, Crognale, Domo, Faizzone, Ferrazza, Filetta, Fiumatello, Francucciano, Forcelle, Moletano, Musicchio, Nommisci, Osteria della Meta, Pasciano, Patàrico, Petrana, Pinaco Arafranca, Poggio Castellano, Poggio Vitellino, Prato, Preta, Rio, Retrosi, Roccapassa, Rocchetta, Saletta, San Benedetto, San Capone, San Giorgio, San Lorenzo a Pinaco, San Martino, Santa Giusta, Sant'Angelo, San Tomasso, Saletta, Scai, Sommati, Torrita, Torritella, Varoni, Villa San Cipriano, Villa San Lorenzo a Flaviano, Voceto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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