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Cos'è il tarantismo

Tarantismo

di Eugenio Imbriani 

1. L’attualità del tarantismo
Come è ampiamente noto, negli ultimi anni la curiosità e l’interesse verso il fenomeno del tarantismo sono enormemente cresciuti; la bibliografia, aggiornata a maggio del 2006, curata da Gabriele Mina e Sergio Torsello, delle pubblicazioni relative all’argomento, a partire dal 1945, conta circa mille titoli, in buona parte concentrati nell’ultimo decennio o poco più (Mina, Torsello 2006; tutt’altro che irrilevante è, a questo proposito, la comparsa dell’attesa edizione in inglese della Terra del rimorso, cfr. De Martino 2005). A questa esplosione editoriale, che comprende, oltre a scritti originali e alla riedizione di opere antiche e di una messe di interventi e articoli e documenti per lo più poco noti, se non del tutto sconosciuti, anche una intensa produzione audiovisiva, si accompagna, inoltre, l’organizzazione di convegni, mostre, conferenze, spettacoli, concerti che hanno luogo elettivamente nel Salento (in realtà, l’interesse e il coinvolgimento è molto forte anche fuori dai confini pugliesi), particolarmente nei mesi estivi. Probabilmente il prodotto più importante di questo movimento, per il richiamo che esercita, per la visibilità che si è conquistato, per ciò che rappresenta in termini di promozione del territorio è la “Notte della taranta”, manifestazione che nell’arco di due settimane dà vita a una serie di concerti affidati a gruppi di musica popolare, non solo locali, in una decina di località della provincia di Lecce e si chiude con il concertone finale di Melpignano, meta di decine di migliaia di appassionati, diretto da un maestro la cui formazione può essere anche molto distante dalla musica popolare e al quale partecipano artisti di grande richiamo (nel passato Zawinul, Copeland, De Gregori, Dalla, Battiato, Nannini, e altri) insieme a una selezione di conoscitori ed esecutori di musica di tradizione locale. Il nome stesso della manifestazione rinvia esplicitamente alla figura del ragno che per secoli ha tormentato i corpi e la mente delle vittime del suo morso e il cervello di medici e studiosi che si interrogavano sulla stranezza del caso: gli effetti di quel veleno possono essere controllati attraverso una terapia coreutica e musicale che assume, nel corso della storia e a seconda dei luoghi in cui viene praticata, forme diverse, seppure all’interno di un’unità rituale chiaramente riconoscibile. Si è molto discusso sull’uso e sulla natura della musica e della danza; non ogni musica può risvegliare (scazzicare) la vittima, questo dipende dal temperamento dell’animale che ha morso, ma è anche vero che i repertori usati nel corso del rito di guarigione, che poteva durare per giorni, erano molto vari, nel ritmo, nelle melodie, nei testi. Sappiamo, peraltro, che una persona può diventare tarantata in seguito a un incontro con una serpe, essendone rimasta “incantata”, oppure con altri animali, tanto che a lungo nei trattati di medicina troviamo discettazioni su quale sia realmente l’animale chiamato tarantola. A quanto pare, comunque, in modo ricorrente troviamo l’esecuzione della tarantella: ne fa apertamente fede, per esempio, il medico Epifanio Ferdinando (1621), nominando anche una serie di varianti, ma alcuni lustri dopo i padri Nicolello e Galliberto, inviati da Atanasius Kircher per osservare direttamente il fenomeno, rileveranno degli antidoti musicali che poco o nulla hanno a che fare con quella danza (Cosi 1999). Oggi si ritiene comunemente che la pìzzica pìzzica, la tarantella locale, sia il ballo di guarigione, per antonomasia, usato nel tarantismo, ne viene enfatizzata la funzione liberatoria (Gala 2006) e la “Notte della taranta” è divenuto il luogo del suo trionfo.


Sembra abbastanza chiaro che l’attualità del tarantismo, il suo riprodursi nei discorsi, nelle politiche, nel sostanziale fraintendimento delle sue forme storiche, ha ben poco a che spartire con l’esperienza dei tarantati, dolorosa e sofferta, e dei musicisti terapeuti; lo stesso volume di De Martino, La terra del rimorso, che contiene, per così dire, la summa interpretativa del fenomeno (De Martino 1961), ha avuto numerose ristampe negli ultimi anni, è diventato un libro di culto per i giovani, soprattutto, che talvolta decidono di marcare con il suo acquisto, portandoselo appresso, magari nei concerti, la propria appartenenza, è meno letto di quanto la sua circolazione possa lasciare intendere. E tuttavia il dibattito resta molto vivo, spesso informato e argomentato, a volte meno, a livello locale fortemente appassionato; non possiamo pretendere, tuttavia, che si sviluppi, sempre e comunque, sul piano della correttezza filologica, laddove il terreno è arduo e faticoso, irto di latino e di scritture mediche, di formule letterarie dai contenuti retorici, di informazioni confuse e inesatte.
Comunque sia, questo tipo di materiali è ormai in gran parte disponibile in libreria, grazie alle ristampe e alle riedizioni di cui accennavo sopra. Mentre scrivo, per esempio, è stato pubblicato l’ultimo volume della “Biblioteca di studi storici sul tarantismo” delle edizioni Besa di Nardò, vale a dire le lezioni accademiche di Francesco Serao Della tarantola, o sia falangio di Puglia, uscite incomplete nel 1742 (Serao 2007; sul contesto scientifico cfr. Di Mitri 2006); l’autore, allievo di Nicola Cirillo, fu professore di medicina all’università di Napoli e godeva della benevolenza, tra gli altri, di Celestino Galiani e dello stesso Giovanbattista Vico, tanto che proprio rispondendo al loro incoraggiamento, si dedicò alla redazione del testo. Egli non credeva  nella realtà del morso del ragno, con i suoi effetti così particolari; inoltre, analizzando la letteratura sul tema, segnala il fatto che lo stesso animale individuato come tarantola cambia aspetto presso i vari autori del passato, i quali dimostrano di parlarne con scarsa cognizione; il problema è che molti riprendono quello che hanno detto altri, a dispetto delle verifiche sul campo. Il contributo critico di Serao è fondamentale, a dispetto del fatto che egli stesso non si è mai mosso per “controllare”, poiché propone una formidabile lettura del problema: il tarantismo, egli afferma, è un istituto, anticipando la soluzione sociologica e “antimedica” degli etnologi; egli all’epoca non poteva ancora sviluppare il ragionamento in termini esplicitamente culturali, poiché non poteva averne gli strumenti, ma la sua intuizione indica una via interpretativa plausibile, che di tanto in tanto viene rivisitata dai commentatori successivi (cfr. Carducci in D’Aquino 1771; De Raho 1994). Il tarantismo osservato da De Martino in una prospettiva storico-culturale e storico-religiosa si rivelava come dispositivo in grado di disciplinare la crisi, di conferirgli ordine, di modellarlo in forme storicamente e culturalmente definite: «una volta che al tarantismo venivano riconosciuti una plasticità tipicamente culturale e un ordine definito di simboli mitico-culturali appartenenti ad una certa tradizione, ogni tentativo di riduzione psicopatologica del fenomeno veniva con ciò stesso respinto come inadeguato. Nella prospettiva dell’analisi culturale il tarantismo non si manifestava come disordine psichico, ma come ordine simbolico culturalmente condizionato […] nel quale trovava soluzione una crisi nevrotica anch’essa culturalmente modellata» (De Martino 1961: 57). Sarà Rouget (1986), poi, in particolare, a ribadire l’idea che il tarantismo costituisca un esempio, forse residuale, di un culto di possessione, ciò che lo stesso De Martino aveva affermato già in Sud e magia (1959). Nel testo di Serao, quindi, in nuce appare un approccio alla questione di grande rilievo, perché avrebbe aperto la strada alla rilevazione della natura profondamente culturale del tarantismo, non malattia, o isteria, o finzione, ma meccanismo di interpretazione e controllo di situazioni critiche e conflitti irrisolti.

2. Musica e canti
Se leggiamo le testimonianze relative all’organizzazione della spedizione nel Salento guidata da De Martino nel 1959, riceviamo l’impressione di una gestione molto rigida, quasi militaresca, per così dire, del gruppo di ricerca; bisognava che i ricercatori facessero in modo di nascondersi, per quanto fosse oggettivamente impossibile, mimetizzarsi, o almeno di evitare di dare nell’occhio, e, soprattutto, far fruttare il tempo a disposizione (venti giorni, viaggio compreso), raccogliere quante più informazioni e documentazione possibili: interviste, ovviamente, scatti fotografici, registrazioni audio. Per questo motivo era fondamentale il coordinamento del gruppo, in parte già rodato in precedenti esperienze di campo. In particolare, Diego Carpitella aveva ormai una lunga militanza di ricerca al fianco dell’etnologo napoletano (oltre ad aver condotto le note inchieste e la relativa produzione discografica insieme a Alan Lomax). Il loro sodalizio era iniziato già nel 1952, all’epoca in cui De Martino condusse le prime spedizioni etnologiche in Basilicata, a giugno e poi nell’ottobre di quell’anno (De Martino 1995); a riprova della novità di questo connubio sta, per esempio, il fatto che l’indagine di comunità condotta a Matera in quegli stessi anni sotto la direzione di Friedrich Friedmann non si avvaleva del contributo di un etnomusicologo.
Bisogna dire che la pratica della ricerca sul campo costituiva per De Martino una fondamentale prova metodologica, che si sarebbe perfezionata nel tempo, perché egli voleva perseguire l’obbiettivo di fondare una modalità dello studio rivolto alle pratiche culturali popolari che avesse una validità pari a quella garantita dalla storiografia. Bisognava trasferire anche nel campo degli studi etnologici i principi che rendevano certa la verità storica, secondo l’insegnamento di Croce. Su queste faccende molto si è detto: forse è importante, però, sottolineare come una simile prospettiva richiedesse un approccio del tutto originale, considerata anche la condanna ormai pronunciata contro l’etnologia di matrice anglosassone accusata di naturalismo. Mettersi in viaggio significava per De Martino esplorare un universo altro, per quanto non lontanissimo nello spazio, colpevolmente dimenticato, trascurato, come se fosse popolato da esseri tutto sommato solo in qualche misura umani. La scommessa metodologica, insomma, consisteva nel reperire documenti laddove la storiografia non poteva cercarli, cioè nelle pratiche rituali in azione, nelle storie di vita, nei racconti personali, nella percezione della sofferenza viva, tra i suoni terapeutici e le urla, i commenti, le invocazioni, nel rumore di fondo. Da qui la puntigliosa, a tratti esasperata esigenza della documentazione, da qui anche il ruolo indispensabile di documentaristi d’eccezione come Carpitella e insieme di un fotografo del calibro di Franco Pinna, il quale, a sua volta, aveva già partecipato alle spedizioni in Basilicata, con risultati troppo noti perché siano qui ricordati ancora una volta (Faeta, Gallini 1999). Si tratta di un apporto tutt’altro che secondario. La prima edizione di La terra del rimorso era corredata di un disco in vinile contenente un saggio sonoro delle registrazioni raccolte. Del disco non si è più avuta traccia nelle edizioni successive, ma il fatto che fosse stato pensato come parte accessoria quanto si vuole e tuttavia integrante del volume la dice lunga sulla rilevanza che veniva attribuita a questo versante della ricerca. Successivamente, Gianfranco Mingozzi utilizzò alcuni di quei brani per il commento musicale del suo film La taranta (1962); da allora i materiali hanno avuto opportuna conservazione al Centro Nazionale Studi di Musica popolare, oggi Archivi di Etnomusicologia, dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia, costituendo le raccolte n. 48 e n. 53 (quest’ultima relativa alle registrazioni svolte nel Salento da Carpitella nel 1960), con il risultato, però, di essere sottratti all’ascolto e alla conoscenza da parte di un pubblico che non fosse strettamente formato da fortunati specialisti. Finalmente, le due raccolte, quasi integralmente, hanno visto la luce due anni fa in un volume corredato di due Cd, curato da Maurizio Agamennone, che di Carpitella è stato allievo (Agamennone 2005).
Mi piace immaginare questo lavoro, se non come un completamento di quello di De Martino, almeno come un rigoglioso ampliamento della terza appendice della Terra del rimorso, quella di contenuti musicologici, firmata, appunto, da Carpitella: laddove l’attenzione dell’etnomusicologo è centrata sulla descrizione dell’Esorcismo coreutico-musicale del tarantismo, attraverso l’utilizzazione delle schede di rilevazione, in particolare, di due cicli terapeutici, l’analisi delle trascrizioni musicali fornite dal Kircher nel 1641 e tarantelle da lui registrate; sottolinea, seppur rapidamente, la presenza, nella cura, di canti epico-lirici melanconici e funebri, ma ci sarebbe stato molto altro da aggiungere, come è possibile intendere da una breve nota dello stesso studioso: «Nel corso di una esplorazione etnomusicologica effettuata nel Salento nell’estate del 1960 furono filmati da D. Carpitella circa 100 metri di pellicola a 16 mm in cui sono riprese alcune sequenze della cura domiciliare di Maria di Nardò e di una tarantella “ricostruita” di Muro Leccese. Questi documenti filmici sono stati proiettati, unitamente ad alcune diapositive, nel corso di una comunicazione tenuta da D. Carpitella sui Documenti coreutico-musicali sul “tarantismo” ancora oggi esistente in Puglia nel VI Congresso Internazionale di Scienze Antropologiche e Etnologiche (Parigi, 30 luglio – 6 agosto 1960» Carpitella 1961: 371); aggiungiamo che il filmato citato è Meloterapia del tarantismo e che a Parigi conobbe Rouget; le registrazioni del 1960 datano dal 6 al 14 giugno, il primo giorno vengono effettuate nella sede RAI di Bari, le altre in varie località della provincia di Lecce, procedendo verso sud (a Muro Leccese è la tappa del 10 giugno con la ricostruzione della tarantella terapeutica). Carpitella, insomma, avrebbe potuto raccontare qualcosa in più di questa sua nuova esplorazione, ma si ferma all’esperienza del 1959, e per questo motivo la raccolta n. 53 era ancor meno nota della n. 48; oggi è possibile ascoltarla e apprezzare i repertori molto ricchi e vari esistenti all’epoca, e la particolare qualità delle esecuzioni. Inoltre, val la pena sottolineare che gli itinerari del 1959 e 1960, già differenti tra loro, non coincidono affatto con quello precedentemente seguito da  Carpitella con Alan Lomax nel 1954, per cui, complessivamente, l’area interessata dalle successive rilevazioni, compiute in quegli anni, risulta considerevolmente ampia, ed esse restituiscono la documentazione di una realtà complessa, articolata, assai differente dalla versione troppo semplificata, tutta centrata sulla pìzzica che oggi viene proposta generalmente.

3. Danza e retorica
Conosco numerose persone che sono partite dal Salento una dozzina di anni fa, verso altri luoghi per lavoro o studio essendo del tutto ignare di tarantole e tarantolati, per ritrovarsi, dopo qualche tempo, investite della curiosità di chi voleva, in quei lidi, saperne qualcosa, perché erano giunte notizie di un universo in festa permanente, almeno d’estate, e di una danza salvifica al suono del tamburello: questi miei conoscenti e amici si sono sentiti sempre più inadeguati e quasi in colpa per non conoscere quei ritmi e la incredibile storia del ragno pur essendo nati e lungamente vissuti sul posto; possibile che per anni non si siano accorti di nulla? Il risultato è che, al ritorno per le ferie, cercano informazioni, magari si iscrivono a qualche scuola di pìzzica, non tutti, però, non sempre con grande convinzione, qualcuno se ne frega, beato lui. Gli anziani, poi, quelli che ora hanno intorno agli ottant’anni, in gran parte non hanno mai ballato la pìzzica, ma in compenso sono molto più ferrati sui ballabili di provenienza americana e sul liscio, naturalmente, perché si tratta delle danze normalmente eseguite nella loro giovinezza. Luigi Stifani, di Nardò, il più famoso dei suonatori terapeuti delle tarantate, campava facendo il barbiere ed esibendosi con la sua orchestrina in locali da ballo e ai matrimoni eseguendo i ritmi in voga al momento. Gli anziani che la conoscono danzano la pìzzica in coppia, ed eseguono movimenti che non compaiono nelle nuove versioni del ballo, in cui i ballerini si muovono da soli, come in discoteca, e i passi hanno variazioni del tutto nuove proposte nelle citate scuole e che poi, come accade, si diffondono attraverso l’imitazione e la ripetizione.
I giovani si trovano più a loro agio in questo contesto sonoro, perché hanno fatto in tempo a crescere col ritmo del tamburello e pestando i piedi, a individuarvi e riconoscervi i segni di una appartenenza e della località, all’interno di un amplissimo panorama - se posso utilizzare questo concetto di Appadurai (2001) - di offerte musicali; il tarantismo si riduce, però, sostanzialmente, alla musica e alla danza, anzi, a una musica e a una danza e si sposa bene con la retorica del sangue, del noi che siamo fatti in questo modo, il ritmo ce l’abbiamo dentro, siamo solari, abbiamo imparato a curarci danzando, e abbiamo le radici.
Questo meccanismo semplificatore guida la selezione degli elementi che entrano a costituire il patrimonio della cultura popolare locale, che diviene espressione del territorio; la tarantola da simbolo spaventoso e angosciante si è trasformato in gioiello da esibire, veicolo di messaggi positivi ed estetizzanti, emblema di una identità danzante. Il resto - la storia dei luoghi, il paesaggio, il lavoro, le feste patronali, le sagre -, in quest’ottica, acquista senso attraverso le implicazioni che lo intrecciano con quei discorsi: da cui la complessità, con le sue aperture, l’ampiezza delle possibilità, l’imprevedibilità delle soluzioni, quasi scompare a vantaggio del già detto.

4. Uno sguardo sul passato
Non è facile fornire in termini sintetici una quadro storico del tarantismo, perché le testimonianze che in modo esplicito riguardano il fenomeno abbracciano un arco di poco meno di sette secoli; potrebbe, però, essere utile riflettere sul alcune ipotesi interpretative e su alcuni elementi che lo hanno caratterizzato.
Per lungo tempo, si è parlato del tarantismo come di una malattia, dagli aspetti particolari, certamente, ma causata dall’avvelenamento dovuto al morso di un ragno; abbiamo già detto di quanto problematico sia questo schema (quale ragno? e poi: altre situazioni ne determinano la sindrome), ma c’è da aggiungere altro: questo avviene in Puglia, tanto che l’animale a cui si attribuisce la responsabilità del male si chiama tarantola, e già le più antiche fonti collegano il tarantismo, e la tarantola, a Taranto e, per estensione alla regione. A metà del XIV secolo nel Sertum papale de venenis, una raccolta di informazioni sugli animali velenosi e sui rispettivi antidoti, il medico padovano Guglielmo De Marra descrive il tarantismo con i caratteri ormai definiti, quegli stessi che verranno regolarmente riscontrati successivamente: la territorialità, la terapia coreutica e musicale (con l’indicazione delle altre cure applicabili per gli avvelenamenti), la iteratività della sindrome, attribuita alla fissazione dell’idea che la vittima aveva al momento del morso (Mina 2000); questa credenza è ampiamente attestata nel corso dei secoli, e riferita, tra gli altri, dallo stesso Leonardo da Vinci - e infatti De Martino lo segnala nell’esergo della Terra del rimorso -, e si accompagna all’altra secondo cui i sintomi del morso tornano periodicamente: il ri-morso, il cattivo passato, si ripete quale momento di angoscia e di crisi. Per i medici tardomedioevali e rinascimentali il tarantismo è una malattia melanconica prodotta dall’impatto tra l’umore freddo iniettato nella vittima e le condizioni temperamentali della stessa: da qui dipende la varietà e, in certa misura, l’imprevedibilità dei comportamenti dei tarantati: chi canta, chi ride, chi piange, chi danza, chi è triste, chi si dispera, e così via; d’altro canto, lo stesso veleno, come ogni corpo e oggetto ha in sé una parte misteriosa, una qualità oscura che agisce in modi inintelleggibili. La terapia coreutico-musicale aiuta a rimettere in moto, in buona sostanza, una fisiologia parzialmente o totalmente bloccata. Il motivo per cui tutto ciò accada in Puglia è argomento di amplissimo dibattito e le opinioni si attesteranno fondamentalmente su due posizioni: dipende dai ragni pugliesi (dalla loro natura, dal clima in cui vivono, da quello che mangiano), dipende dai pugliesi: non dirò niente sulla questione, lasciandola nell’indecisione in cui è tanto a lungo vissuta: se un forestiero giunto in Puglia può essere morso e soffrire di tarantismo, può un ragno pugliese procurare gli stessi danni se trasferito in altra regione?
Il Sertum papale è il primo documento in cui si parla di tarantismo, ma vi si accenna all’esistenza di precedenti autori che hanno riflettuto sulla materia, i cui non sappiamo alcunché; sappiamo, però, che esistono numerose testimonianze successive, in particolare ad opera di medici, che continuano ad adottare il paradigma melanconico, coerente con i principi della medicina ippocratica e galenica adottati all’epoca, con la mediazione e il soccorso della scienza araba. Il comportamento dei tarantati diventerà luogo comune, attraversando libri di medicina, di filosofia e di letteratura; nelle città diventa spettacolo ricorrente la presenza di mendicanti sedicenti tarantati spaventosi e schiumanti, talvolta incatenati.
Nel frattempo, dappertutto in Europa, dilagando, in particolare nelle corti, ma non solo, il timore degli avvelenamenti, circolano guaritori, serpari, sampaolari, ciarlatani, ciurmadori immuni dagli effetti tossici dei morsi dei serpenti - perché discendenti da famiglie beneficiate da un santo o dal luogo di nascita (si pensi ai Marsi abruzzesi, per esempio) -, e con essi si diffondono rimedi, il più famoso dei quali è la terra di Malta, proveniente dal santuario di san Paolo costruito nel luogo in cui il santo, sbarcatovi in seguito a un naufragio, fu morso alla mano da una mortifera echidna, rimanendone illeso, suscitando generale meraviglia e venerazione (cfr., nell’ampia letteratura, Turchini 1987). Tuttavia, tra il santo e il tarantismo non ci sono ancora legami attestati sul piano documentario, bisognerà aspettare.
Nel XVII secolo appariranno opere di grande rilievo sul tema. Nel 1602 vengono pubblicati a Napoli i Tre dialoghi di Vincenzo Bruno, uno dei quali intitolato Dialogo delle tarantole, in cui due filosofi, Pico e Opaco, ragionano di fatti accaduti a Venosa qualche anno prima, in seguito all’apparizione di una cometa: l’aria si era fatta più calda e le tarantole avevano aggredito in massa la popolazione; la combinazione dei due eventi aveva determinato situazioni assolutamente straordinarie; c’era gente che parlava lingue sconosciute,  c’era chi si comportava da monaca, chi leggeva il Vangelo, chi, dichiarando di essere un famoso musicista, strimpellava malamente su una rebecchina scassata, chi pretendeva riverenza da gran signore, un altro andava urlando il suo amore alle suore di un convento, ci fu anche un’invasione di spiriti, donne ammodo si esibivano in ardentissime evoluzioni. Il testo, soprattutto, descrive, per la prima volta nella letteratura, i momenti dell’uscita dalla crisi di una giovane serva che danza agghindata c,on monili e abiti che ha ricevuto in prestito, seguendo gli ordini che un essere invisibile, la sua signora, Caterina, le impartisce attraverso il liuto; la povera ragazza si libera di lei parlando in versi e invocando la Madonna, e infine crolla per terra esausta (Bruno 2005; Imbriani 2004). È una di quelle testimonianze che inducono a pensare al tarantismo come a una forma residuale di un culto di possessione.
Alcuni anni dopo, il medico di Mesagne Epifanio Ferdinando pubblica le già citate Centum historiae (1621), di cui l’ottantunesima è dedicata alla discussione del caso di Pietro Simeone, colpito da tarantismo, o forse da aracnidismo; Serao considerava Ferdinando un credulone; questi, in effetti, racconta una serie di episodi, riferitigli dalla gente del paese, a dir poco bizzarri: un’ape punta da un ragno danza al suono di un violino, un tizio con lo stesso strumento si diletta a far ballare i ragni… In realtà il medico salentino, tra le solide certezze (il morso è vero e reale, afferma) nutre molti dubbi, dato che dedica una parte corposa della sua relazione ad enumerare ben 99 questioni, alle quali, peraltro, non sempre è in grado di dare risposte convincenti. La temperie scientifica nella quale opera Ferdinando è resa problematica dai segnali della fisica galileiana, che segnerà il tramonto della interpretazione del mondo fondata sulle qualità e sulle corrispondenze, non sempre del tutto decifrabili, tra i meccanismi astrali e quel che accade sulla terra. Ferdinando rimane legato alla sua medicina e ai principi aristotelici, ma sa che non gli serviranno a capire e spiegare in modo completo e non parziale e contraddittorio, tutto quel che ai tarantati accade. Un’annotazione di carattere sociale, tuttavia, conviene sottolinearla: la sofferenza è tanta, spiega, ci sono famiglie che risparmiano per tutto l’anno al fine di procurare i suoni a una parente afflitto dal male; orchestrine vagavano per i campi e le masserie per offrire i propri servigi: nessuno è tanto pazzo, egli dice, da privarsi del necessario al fine di pagarsi la cura musicale se il dolore non è vero e profondo (cfr. Marti, Urgesi, 2001).
Sulla resistenza delle teorie legate alla magia naturale e alla iatromusica offrono ampie prove gli scritti di padre Atanasius Kircher, che tratta più volte del tarantismo, a cominciare da Magnes sive de arte metallica (1641), procurandosi le informazioni in Puglia, come sappiamo, da due emissari locali; il gesuita è un sapiente enciclopedico, ama i confronti, cumulare dati comparativi, e quindi raccoglie una quantità di informazioni; grazie a lui possediamo una sinossi delle pratiche terapeutiche rilevate dai vari autori e che poi ritroveremo successivamente sparse per luoghi e testi. Per il dotto gesuita il ricorso ai colori, ai profumi, alla musica, al canto, la ricerca di acqua e di ambienti freschi e frondosi costituiscono la dimostrazione della validità dei rimedi naturali, in considerazioni dei legami magnetici che si instaurano tra gli esseri animati.
Con Kircher avrà motivi di polemizzare Francesco Redi, il quale deriderà l’opinione che con un po’ di musica si possa curare un dolore fisico (e su molto altro non sarà d’accordo); sul versante dell’empirismo, e in polemica con il punto di vista kircheriano, troviamo il medico Giorgio Baglivi, leccese d’adozione, autore di una famosa dissertazione De anatome morsu et effectibus tarantulae (1696): un coniglio morso da un ragno muore senza che la musica gli procuri alcun giovamento e ciò dimostra sperimentalmente l’inefficacia della musica per la cura, per gli animali e per gli uomini. Esistono casi di aracnidismo, egli asserisce, ma più numerosi sono i casi in cui lo stato di malessere è solo attribuito al morso; in particolare le donne, solitamente segregate in una vita priva di relazioni, partecipano alla terapia come se fosse un’occasione di fuga e di gioco; alcune accentuano il pallore strofinandosi il volto di cenere e corrono dove sentono musica: è il “carnevaletto delle donne”, secondo l’espressione che egli usa.
Intanto a Galatina due sorelle, Francesca e Polissena Farina, dette le Bellevicine, curavano con la loro saliva persone punte o morse da animali velenosi, per privilegio concesso alla loro famiglia e tramandato per linea femminile dagli apostoli Pietro e Paolo, i quali, prima uno e poi l’altro, abitarono, secondo antichissima tradizione, avevano abitato in quella loro casa. La fonte è Anatomia degl’Ipocriti di Alessandro Tommaso Arcudi (1699), scrittore galatinese, probabile autore anche di una pagina anonima di alcuni anni posteriore che integra la testimonianza precedente (Vallone 2004). Ancora nei primi decenni del Settecento si riteneva che, grazie all’ospitalità ricevuta, san Pietro avesse beneficiato la comunità rendendola immune dal morso delle tarantole; solo successivamente questo merito e il patronato sui ragni verrà attribuito a san Paolo. Nella seconda metà del XVII secolo, quindi, operano queste due guaritrici, ed è estremamente interessante vedere come intervengano nella terapia del tarantismo: il tocco con la saliva va effettuato sui tarantati, che si recano presso di loro dai paesi vicini, prima che inizi il ballo; la saliva non sostituisce, quindi, la cura musicale, ma, evidentemente, la asseconda; si mescolano, evidentemente, elementi connessi alla guarigione da animali velenosi (la saliva, la sacralità concessa da un santo alla famiglia e ai discendenti, in questo caso per linea femminile) con quelli della terapia per il morso delle tarantole (cfr. Montinaro 2000). Nella cittadina altre novità si preparano; le sorelle non avranno figli e la sopravvissuta  delle due, prima di morire a sua volta, sputa nel pozzo della casa, rendendo quell’acqua benefica; così si spiegano i pellegrinaggi al pozzo di cui si parla nelle fonti successive, pratica durata fino al 1959, quando lo stesso De Martino registrò che era stato chiuso per motivi igienici. Nel 1741 esce presso l’editore Viverito di Lecce De tarantulae anatome et morsu di Nicola Caputi (o Caputo), un lavoro in realtà pronto da tempo, e adesso il riferimento a san Paolo è esplicito; a Galatina l’innesto della figura e del culto di san Paolo nell’universo simbolico del tarantismo avviene, è dato pensare, attraverso l’operato dei guaritori sampaolari, i quali intervengono per sanare le vittime di scorpioni, vipere e tarantole, quelle vittime che «ad puteum illum accedentes, qui adhuc exatat, a Divo Paulo salutem implorantes, illasque bibentes aquas, sanos protinus evadere ajunt, laetoque animo ad domus suas redeuntes, Apostolo Benefactori gratias agere» (Caputi 1741: 230).
Con il nuovo secolo la pubblicazione del De Phalangio apulo di Ludovico Valletta, nel 1706, ci porta nella parte settentrionale della Puglia, area contigua a quella lucana citata da Vincenzo Bruno e in cui si svolge la straordinaria pantomima osservata da Domenico Sangineto al castello della Motta di Montecorvino e decritta in una famosa lettera inviata ad Antonio Bulifon e da questi girata al Redi (Bulifon 1693; altri materiali sull’area in Annibaldis 2004). Si ricorderà la servetta diBruno che danzava obbedendo a una “signora”, Valletta descrive la danza di una nobildonna di Lucera in termini molto simili, giungendo a ipotizzare la possessione diabolica per spiegare certi eccessi, Sangineto raccontava di un gruppo di bifolchi che agiva come se avesse costituito un piccola società di corte, con riverenze a saluti ufficiali, incapaci di ricordare alcunché del loro comportamento una volta tornati in sé; sono i casi che principalmente inducono a pensare, da una parte, a reliquie di culti di possessione, dall’altra a riflettere sull’esistenza di forme specifiche regionali di tarantismo; del resto, come abbiamo visto, alla stessa figura di san Paolo è attribuito il patronato sul tarantismo in un contesto piuttosto preciso, senza che per questo gli venga riconosciuto ovunque.
Per quanto riguarda il XVIII secolo, ho già citato dei testi che sono espressione del pensiero illuminista, non ci tornerò su. Anzi, a questo punto conviene procedere rapidamente, perché le problematiche fondamentali sono emerse e inoltre, molti testi, quasi tutti i più importanti sul nostro argomento, sono disponibili in edizioni accessibili e sono riportati nella ricordata bibliografia di Mina e Torsello. Un discorso simile si può fare per l’Ottocento. Certo, l’approccio positivista non aiutava certo i medici nella comprensione del fenomeno; conviene ricordare, tuttavia, l’impegno storiografico di Salvatore De Renzi, sia nelle Osservazioni sul tarantismo in Puglia (1832) che nella monumentale Storia della medicina (1845-1848), e l’opera storico-comparativa  di Justus Hecker il quale, in Die Tanzwuth (uscito nel 1832) studia il tarantismo insieme alle epidemie coreutiche in Europa e in Abissinia (Hecker 2001). Scienziati, letterati, viaggiatori (tra questi Riedesel, Marschlins, Ceva Grimaldi, Ross) continuano a esercitarsi sul tema, muovendo dall’osservazione e da ricerche originali, alternando compassione e denigrazione, moti di pietà e disprezzo per i poveretti che, li si riconosca afflitti dal male o li si consideri solo superstiziosi e ignoranti. Un medico più spregiudicato della media, Giuseppe De Masi, in un articolo del 1874 sembra gettare la spugna: il tarantismo è un mistero, dice, e bisogna riconoscere che la terapia coreutica-musicale funziona.
Due anni dopo, nel 1876, sulla “Rivista europea”, in quattro puntate venne pubblicata la monografia La vita della Terra d’Otranto del giudice e storico Luigi Giuseppe De Simone, con un capitolo molto importante dedicato al ballo e al tarantismo (De Simone 2006); ancora un medico, Ignazio Carrieri (1893), si cimenta con la fisiologia del morso, attraverso l’osservazione di casi clinici, escludendo dalla sua analisi gli «aspetti teatrali»: i quali sono invece al centro dell’attenzione dallo scrittore e folklorista Giuseppe Gigli, in una monografia uscita in quello stesso anno, ma per essere molto severamente giudicati (Gigli 1998). Dopo l’unificazione dell’Italia gli intellettuali salentini si ponevano il problema dei termini in cui presentare un fenomeno così strano e “barbaro” al nuovo consesso nazionale: prevalevano gli atteggiamenti di condanna, e di vergogna, e l’idea di proporre il tarantismo al resto d’Italia come espressione di una identità locale avrebbe scatenato commenti inorriditi (su questi problemi rinvio a Imbriani 2001). Finalmente, nel 1908 il medico leccese Francesco De Raho dà alle stampe la sua tesi di laurea, Il tarantolismo nella superstizione e nella scienza, nel quale il tarantismo viene studiato in tutti i suoi aspetti, e non è ridotto semplicemente a malattia, se ne ripercorrono i tratti simbolici, quelli religiosi, se ne coglie la dimensione di modello culturale; De Raho incontra Serao e De Martino, il primo spiritualmente, l’altro andrà proprio a trovarlo (De Raho 1994).
Fermiamoci qui, anche perché l’andamento circolare del discorso ci ha riportati al punto di partenza, sebbene, come è chiaro, tanto ancora si possa dire, individuare punti di vista divergenti, approfondire alcuni nodi tematici. Inoltre, ci sono studi in corso e nuove pubblicazioni in cantiere, ma qui rischio davvero di ripetermi. Uno sguardo sul passato del tarantismo non può impedirsi di soffermarsi su un libro molto particolare e davvero intenso di significati e stimoli destinati a rinnovarsi: mi riferisco alle lettere inviate da Anna (Michela, in realtà), anziana donna tarantata di Ruffano all’antropologa Annabella Rossi, collaboratrice di De Martino nella spedizione del 1959 a Galatina, dove si erano incontrate; il titolo della raccolta è Lettere da una tarantata, ne esistono due edizioni, la prima del 1970 (Bari, De Donato), con le fotografie della Rossi, la seconda del 1994 (Lecce, Argo), con una introduzione memorabile di Paolo Apolito: ce ne vorrebbe una terza, che le ricomponesse.

  

Bibliografia

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