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Bonasera bbona ggende


Canti e musiche dall'Abruzzo

Li Sandandonijrë di Penna Sant'Andrea (TE)

COMPACT DISC ES002 DELLA COLLANA "ETHNICA SYMPHONIA" 
a cura di G. M. Gala e G. Spitilli ©

Incontro con i Santantoniari di Penna S. Andrea


“BBONASERA BBONA GGENDE”

Il 17 gennaio (S. Antonio abate) e i giorni precedenti, “a una certa ora”, ci ritroviamo al bar di Augusto nostro barista, tra gli “alberetti” di Penna Sant’Andrea. È facile che qualcuno arrivi con trequattro ore di ritardo; nel frattempo programmiamo i giri da compiere che in realtà sono già decisi da Augusto, cominciamo a “provare” gli strumenti e a scaldare le voci con lu vocaluccë (vino e gassosa), specialità indiscussa del paese. Infine, quando il nostro “santo” indossa il saio e il Presidente arriva con la “cestarella” sappiamo che è il momento di iniziare, sennò si fa notte. E partiamo per cantare e suonare. La questua impegna tutto il pomeriggio e la sera, e si comincia di solito dalla Trinità – da li Cacunë, per la precisione -, una frazione poco distante dal paese.

“Bbonasera bbona ggende” è il saluto cantato che portiamo all’ingresso nelle case, e quando usciamo il nostro cesto è ogni volta più colmo di salsicce, formaggi, galli , biscotti (li cellittë di Sant’Antonio). Lasciamo in cambio i nostri canti e la benedizione per la casa e per chi la abita. 
“Li Sandandonijre” nascono da questo. Da dieci anni pratichiamo una tradizione che viene da lontano, dalle generazioni che ci hanno preceduto e che lentamente e silenziosamente ci stanno lasciando. Suoniamo per il piacere che la musica ci da quando si sta insieme a bere vino; in mezzo alla gente, quando gli altri ci ballano intorno, o tra di noi, nel fresco della grotta di Attilio, nostro cantiniere. 
In dieci anni non abbiamo mai fatto “prove”. Chi ha appreso ha trasmesso agli altri, suonando e cantando; e tante cose ce le siamo anche inventate, come in ogni tradizione che si rispetti… 
Non possiamo evitare di ringraziare il buon Vincenzo, che ogni anno ci da una papera, e il buon Dino che il gallo non ce lo fa mancare mai; e tutti quelli che ci aspettano nelle case con pazienza, perché è facile che alla fine ci scordiamo anche di passare. Né possiamo non ringraziare quanti ci hanno ospitato in questi anni. 
Le registrazioni per questo disco provengono da contesti e tempi differenti: il 28 dicembre 2003, in uno sperduto agriturismo tra metri di neve, quando Pino si presentò a mezzanotte e gli venne anche in mente di registrare; il 16 e 17 gennaio 2004, a Sant’Antonio, quando il primo giorno ne eravamo la metà e il secondo venticinque, ad andare per le case; infine a casa di Tonino, nostro battafochista maggiore, a consumare i galli e le papere della festa. Quando Attilio si è addormentato sulla sedia il disco era ormai pronto.



LI SANDANDONIJRË DE LA PONNË

A
Penna Sant’Andrea, piccolo borgo collinare della Valle del Vomano, nei giorni precedenti il 17 gennaio uomini attempati e giovani continuano a riunirsi in squadre ed a girare per le case delle campagne e del paese portando lu Sandandonië. Il gruppo, qui documentato, ha dato negli ultimi anni nuovo impulso al rito, ampliando il repertorio con altri canti recuperati dai vecchi del paese e dai centri limitrofi. Terra ricca di suonatori “dubbottisti” (organetto a due bassi) e ballatori, con una pluridecennale confidenza con il folklore spettacolarizzato, pregni di dialetto, cucina, mentalità caratterizzata dalla tradizione, era facile far rigermogliare saperi appena sotterranei e il piacere di continuare ad essere manifestazione vivente di qualcosa che viene dal passato. La spontaneità espressiva, direi esistenziale, è il carattere più peculiare del gruppo. Nati per il paese, vengono adesso richiesti anche altrove, dove però si esibiscono creando nello stesso tempo una chiusura protettiva e identitaria al proprio interno, che diventa formidabile chiave comunicativa al di là delle differenze linguistiche e geografiche. 
Ma il Sant’Antonio fa loro da reale ragione dell’essere gruppo, così quando arriva gennaio, il periodo è sentito in senso sacrale e fortemente rituale, tutto passa in second’ordine. Partono dal barretto di Augusto il pomeriggio della vigilia, ad un’ora vaga e con chi si trova, prima si “fanno le contrade” di campagna: la gente li aspetta di anno in anno, ma non mancano i fuori programma e le visite incaute. S’introducono cantando, conversano con le famiglie ospitanti, scherzano in continuazione inanellando battute e sfottò a non finire, mangiano, commentano, ironizzano e autoironizzano a tutto campo e soprattutto bevono profondamente. E il vino in compagnia, si sa, dà della vita le visioni migliori e reprime problemi e guai. Nell’intenzione iniziale del gruppo c’era il recupero e il piacere di un rituale, negli ultimi anni questo si è reinnestato nell’uso corrente (nascono anche squadre di bambini per il S. Antonio), e quando una tradizione si rivitalizza per flusso interno, scatta anche la fase dell’adattamento e dell’innovazione, soprattutto se il nuovo risponde ad un’esigenza pratica della vita quotidiana.
L’idea di incidere un disco con i loro canti era già venuta in mente a fine anni ’90, dopo vari anni di frequentazione del folklore e della vita pennesi. Quando finalmente ho comunicato loro l’intenzione mi hanno ghiacciato mostrandomi un compatto edito all’estero quasi di passaggio. Non mi sono scoraggiato, le loro potenzialità erano maggiori e soprattutto non erano stati colti nel loro atto rituale: la questua di S. Antonio. L’idea di registrarli in studio non è mai passata per la testa, né a loro, né a me: sarebbe stata una forzatura contro natura. Essi cantano o seduti a tavola fissa o in piedi girando per tavole varie. La convivialità è la conditio sine qua non (chissà che sproloqui direbbe Augusto davanti ad un’espressione latina!), il vino l’accordatore (più spesso lo “scordatore”), la battuta il sale del loro stare insieme, li cëllittë (dolci a forma di uccelletti) le vittime sacrificali. Le registrazioni sonore presenti nel disco sono state effettuate durante la questua del 2004 e in altri due appuntamenti mangerecci. Le scordature sono D.O.C., gli interpreti sono di popolo impiegatizio e di numero variabile, gli arrangiamenti strumentali e vocali improvvisi e di getto, i brani - anche quando si richiedeva un po’ di concentrazione - scorrono liberamente come il mosto, il vino che ne usciva è imprevedibile. L’ascoltatore sappia apprezzare la fedeltà allo spirito folklorico e la spontaneità interpretativa, e comprenda come nella tradizione la precisione è un concetto relativo e la funzione rituale si coniuga anche col piacere dell’azione.

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